LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE DIMENTICHI LA FORMAZIONE"
creata il 30 settembre 2008 aggiornata il 4 febbraio 2011

 

 

Vieni da "Legame sociale tra psicanalisti"

Sei arrivato alla "Discussione sullo stato di tale legame".

Prima considerazione

La prima obiezione che mi viene portata, quando difendo la mia solitudine di psicanalista "free lance", esterno a ogni lobby psicanalitica, è ben nota in ambito lacaniano.

Quello dello psicanalista è un mestieraccio, si dice, fondamentalmente insostenibile. Alla lettera: non bastano le forze individuali per sostenerlo. La ragione è che l'analista lavora a indebolire le certezze sintomatiche dell'analizzante per portare alla luce la verità rimossa. In questo lavoro, se portato avanti onestamente, l'analista indebolisce non solo le certezze dell'analizzante, ma rischia di compromettere anche le proprie.

Fino a un certo punto, però. Fuori seduta, l'analista ha bisogno di recuperare le certezze vacillanti o perdute. Allora accetta di buon grado la dottrina della propria associazione professionale, che attraverso il dogmatismo gli restituisce sicurezza e la forza soggettiva per continuare il proprio lavoro. Insomma, l'analista ha bisogno di essere rassicurato in una professione che opera per destabilizzare le false rassicurazioni fornite al soggetto dal Super-Io individuale e/o collettivo.

Risultato: l'analista passa dal legame epistemico debole, attivo in seduta, al legame ontologico forte, basato sull'identificazione, attivo fuori seduta. All'interno del primo l'analista analizza, all'interno del secondo si prende una pausa di respiro (die Schnaufpause degli amici tedeschi) e cessa di analizzare.

Non ho nulla da obiettare contro queste considerazioni umanitarie. Sono sacrosante. Ricordo però che soggetto individuale, in seduta, e soggetto collettivo, fuori seduta, sono due facce della stessa medaglia. Quello che vale per l'uno, vale anche per l'altro. A me sembra che la divisione soggettiva, come sopra delineata, sia un artefatto della formazione così come viene impartita all'analista nelle associazioni professionali. Se la formazione impone un dogmatismo, la divisione è netta e devastante. Se la formazione è scientifica, cioè si basa sul dubbio e la revisione continua, la divisione soggettiva non scompare ma si attenua.

Il punto da acquisire all'interno di una logica più epistemica che ontologica è che incertezza e certezza, non sapere e sapere, sono in continuità. "Se non sai, allora saprai" è un teorema cartesiano che vale sia per l'inconscio sia per il conscio. La barriera della rimozione non divide il sapere dal non sapere, ma il sapere già saputo dal sapere in arrivo. Per far posto al sapere in arrivo occorre a mio avviso indebolire il legame sociale basato sul sapere già saputo, a sua volta costituito da identificazioni rigide: quelle che regolano l'ontologia della vita quotidiana, "dicono le cose come stanno" dal punto di vista del senso comune e non prevedono correzioni.

Il problema attuale e tuttora non risolto è quello dello psicanalista che, come me, pratica una psicanalisi scientifica. In seduta è con il paziente. Fuori della seduta è solo. Oggi non ha con chi confrontarsi e parlare apertamente, fuori dagli schematismi dottrinari. Perciò in

Legame sociale tra analisti

propongo la raccolta di materiali sulla psicanalisi scientifica e la ricerca in psicanalisi. Potrebbe essere il primo gesto per istituire un collettivo di pensiero tra psicanalisti, libero da egemonie ideologiche imposte dalla lobby di appartenenza.

Seconda considerazione

La regolamentazione di legge della psicanalisi giustificata in base all'ingiustificata equivalenza psicanalisi = psicoterapia, mi ha fatto toccare con mano la realtà di un fenomeno sociologico assai diffuso e molto istruttivo. Non saprei come definirlo. E' un ibrido tra fariseismo e filisteismo, tra ipocrisia e codardia, condito in salsa di grettezza dal tipico retrogusto italiano.

Ricordo che la legge Ossicini fu promossa negli anni Ottanta da Musatti contro Verdiglione, dal padre della psicanalisi italiana soprannominato "magliaro". Non avendo argomenti teorici forti, Musatti diede battaglia al lacanismo verdiglionese in nome della correttezza professionale in campo psicoterapeutico. Questo – non tanto paradossalmente – fu sin dall'inizio il cavallo di battaglia di Miller, genero di Lacan, per il quale la procedura corretta per diventare analisti è passare dalla psicoterapia (equivalente dell'analisi personale nella SPI) alla psicanalisi propriamente detta (equivalente dell'analisi didattica nella SPI). Insomma, la lobby degli ortodossi – lacaniani o freudiani – non ha problemi, spalmata com'è sul conformismo di Stato. Perciò i lobbisti ortodossi non sentono il bisogno di difendere la psicanalisi e non firmano nessun manifesto adifesta della psicanalisi.

Chi firma il manifesto in difesa della psicanalisi, allora?

Quasi tutti gli altri, cioè coloro che non fanno parte di lobby psicanalitiche. Firmano coloro che non sono integrati in qualche conformismo di scuola.

Ho detto "quasi tutti". Devo giustificare il "quasi". Chi non firma tra i non integrati? Per rispondere a questo interrogativo devo dire come firma chi firma. Chi firma il manifesto in genere non firma come psicanalista, ma come insegnante o come consulente di vario genere. Perché chi firma non si dichiara pubblicamente come psicanalista? Perché, non essendo iscritto all'albo degli psicoterapeuti, ha paura di dichiararsi in pubblico come psicanalista, QUINDI come psicoterapeuta. Teme un controllo da parte della lobby degli psicoterapeuti, che gli facciano chiudere lo studio per esercizio indebito della professione psicoterapeutica. Allora, va benissimo la difesa della psicanalisi. "Sono pronto a firmare il manifesto a sua difesa – dice l'onest'uomo – ma firmo come salumaio". Risultato: si perdono le firme di quelli psicanalisti – e non sono pochi – che non sono iscritti all'albo degli psicoterapeuti, ma per un residuo guizzo di orgoglio non vogliono firmare a favore della psicanalisi come salumai o come cantautori.

Miseria dello stato del legame sociale tra psicanalisti o

miseria tutta italiana della doppia morale, coniugata all'accidia politica?

Cosa insegna questa miseria?

Provo a dirlo nei miei termini un po' peregrini.

Il collettivo precede l'individuale,

con buon pace dell'ideologia personalista di stampo cattolico, magari declinata in senso fenomenologico alla Max Scheler.

La specie precede l'individuo – detto alla Darwin.

L'inconscio collettivo precede, quello individuale – detto alla Jung.

L'intuizione giusta l'ebbe Jung, che parlava di processo di individuazione, il quale porta a determinare la mente del singolo, la sua anima, ritagliandola dall'anima collettiva, che è qualcosa di simile al Nous anassagoreo. La faccenda si può teorizzare meglio di quanto non fece Jung. Tuttavia, prima che teorica l'urgenza è pratica. Occorre inventare un dispositivo pratico diverso dall'analisi individuale per un controllo più efficiente della dimensione collettiva della psicanalisi. Occorre inventare una politica della psicanalisi che sia psicanalitica e sappia prima stanare poi affrontare i nemici della psicanalisi, che si sono imboscati non lontano da noi stessi, noi psicanalisti che ci riteniamo ortodossi, praticamente religiosi. Occorre inventare una politica della psicanalisi che batta in breccia la delegittimazione della psicanalisi, non tanto paradossalmente ottenuta da ortodossi e lobbysti attraverso manovre improprie per legittimarla. Occorre inventare una politica che salvaguardi il diritto a esistere del più debole – la psicanalisi nella fattispecie – minacciato dalla grossolana violenza – rohe Gewalt, direbbe Freud – del potere, ai cui ordini il diritto è "naturalmente" piegato (vedi di Benjamin, Per la critica della violenza, Zur Kritik der Gewalt).

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Quale politica per la psicanalisi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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